Delle città visito sempre i cimiteri. Nessun riflesso tardoromantico. Amo i parchi, mi piacciono le storie delle persone.
Berlino ne ha tanti, di cimiteri. Poca monumentalità. Quello in cui sono capitato si chiama Dorotheenstädtischer Friedhof e ospita storie illustri, eppure non si direbbe. Non ha niente del Pere Lachaise, di Staglieno o di Highgate. Qui le sepolture sono modeste, una accanto all’altra, quasi un socialismo della morte. C’e qualcosa di familiare, forse addirittura di rustico.
Hegel, sì, proprio il tronfissimo Hegel, riposa modestamente accanto a Fichte, ed entrambi con le consorti. Li potresti immaginare come commensali ad una tavolata di periferia, in una sera di tarda estate.
Brecht e la moglie, due pietre con i nomi ricoperte da fiori di campo, sotto la finestra di casa. Più familiare di così.
Viaggi minimi – Berlino 2
Il rococo’ di Potsdam immerso nel realismo socialista dei palazzi della DDR. E’ bello essere qui, in questo mattino smisurato, nel parco deserto, ventoso, interamente mio. E’ bello sorridere delle dorature dei palmizi del padiglione cinese, la macchina fotografica in mano, il cappellino da turista americano, respirando finalmente aria, lontano da tutto.
Se i miei occhi potessero inquadrare ogni singolo dettaglio, se la memoria riuscisse a trattenerli, potrebbe essercene abbastanza per riempire mille quaderni. Ma ci sono solo mani che incorniciano orizzonti, pensando cosi’ di congelarli, trattenerli, e poi trasmetterli. Ma trasmetterli a chi? Chi sono io, di chi le mani che afferrano un panino al sesamo nella panetteria, di chi gli occhiali, le scarpe, la figura riflessa malamente nello specchio appannato?
Viaggi minimi – Berlino 1
Lo sai, per me ogni citta’ e’ principalmente un odore, piu’ odori.
Berlino e’ curry dolciastro, kebab e paprika, carta di giornali stropicciata, freni di biciclette.
Nelle piazze ci sono bambini che giocano. Li vedo, dappertutto, sudati, con i capelli appiccicati alla fronte.
Sono a Prenzlauer Berg, corrono accanto a me nei palazzi turchi di Kreuzberg.
Un Vermeer a Roma
E cosi’ e’ arrivato. Abbiamo mandato ad Amsterdam Giuditta e Oloferne di Caravaggio e il Rijksmuseum, ci ha prestato per qualche settimana un Vermeer.
Potevano scegliere tra quattro tele.
Ho sperato, fortissimamente sperato nella Lattaia o nella Stradetta. E’ arrivata la Lettera d’amore.
Un segnale, per rilanciare Palazzo Barberini, recita il comunicato stampa. Sara’. Oggi mi sembra che il museo sia sempre il solito. Tutto in due sale. Le luci sbagliate. I quadri appesi lassu’… (l’Erasmo da Rotterdam di Metsys quasi invisibile). Al posto del Giuditta e Oloferne hanno piazzato il Narciso. Il cartello esplicativo e’ appoggiato per terra. Sul muro, i buchi.Sono solo davanti al Vermeer. E’ un privilegio del quale posso godere solo qui, in questo museo cosi’ bello, cosi’ abbandonato. Lo amo anche per questo, egoisticamente. Qui entro e sento di poter possedere tutto. Niente turisti, assistenti museali che parlottano tra di loro, atmosfera di casa.
L’opera d’arte nell’era della riproducibilita’ tecnica mostra ancora una volta la sua unicita’.
Le riproduzioni fotografiche differiscono sempre in modo impressionante dall’originale. Sarei tentato di dire che non servono a niente, ma esagererei.
Eccolo li’, Vermeer. C’e’ la sua firma ben visibile. E il suo mondo consueto: la giacca gialla bordata d’ermellino, la solita sedia, il solito pavimento a quadroni, la solita tenda, anche se dipinta con minor cura rispetto all’Atelier di pittura. E poi, come altre volte, una lettera che stupisce o toglie il fiato. I quadri nel quadro. Lo sguardo focalizzato sulle donne protagoniste della scena, grazie al punto di vista che passa attraverso una porta. Una carta geografica, ma sbiadita contro un muro in penombra. Spartiti gettati alla rinfusa. Un paio di zoccoli e un cuscino. L’espressione della donna che riceve la lettera e’ artificiosa, quasi manierata nelle foto. Tutt’altro nel quadro. Vi si legge speranza, ansia, attesa. Un espressione bellissima. E’ un quadro in cui perdersi. E io mi ci perdo.